PERSONE AL CENTRO
La triplice bottom line (1) per lo sviluppo sostenibile di un’impresa prevede la valutazione integrata di prosperità economica e, come abbiamo visto nell’ultimo articolo sull’argomento, impatto ambientale. Che si tratti di multinazionali o start-up, a completare la triade c’è il capitale sociale: le persone.
Consumatori, investitori, lavoratori (nei quali sono inclusi sia gli amministratori che i collaboratori). Nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite si parla largamente di condizioni di vita e di lavoro, in un quadro generale di eradicazione della povertà e della fame in cui a ogni essere umano possa essere assicurata la possibilità di raggiungere il pieno sviluppo del proprio potenziale con dignità, equità e all’interno di un ambiente sano (2).
È indubbio che un’occupazione remunerata, sicura e rispondente alle competenze di una persona possa contribuire in modo decisivo al suo benessere. La mancanza di questa è causa di sicure conseguenze negative ma i medesimi effetti negativi si riscontrano quando un’occupazione c’è ma impedisce di conciliare i tempi di lavoro e i tempi di vita familiare e sociale (3).
Ritorniamo, dunque, a una questione purtroppo sempre attuale: la conciliazione vita-lavoro.
IL PROBLEMA C'È E SI VEDE
La teoria del buon design ci insegna che se il problema si fa notare, probabilmente di fondo c’è qualcosa che non va. Il cattivo design, infatti, rende evidente la sua inadeguatezza alle nostre esigenze tanto da attirare la nostra attenzione, mentre quando qualcosa è ben progettato, risulta praticamente invisibile (4).
Una buona organizzazione del lavoro dovrebbe funzionare senza rendere la vita difficile ai suoi utenti (i lavoratori) e perché questo sia possibile è necessario prima di tutto recuperare una dimensione umana.
Il problema è ben esemplificato nella situazione lavorativa delle mamme in Italia. Nel nostro Paese, il progressivo aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro non è stato accompagnato da un parallelo e contemporaneo processo di trasformazione sociale e ridistribuzione del carico di lavoro all’interno delle famiglie. Quasi la metà delle mamme che lavorano ammette di vivere la difficoltà di conciliare lavoro e impegni famigliari (5). La stessa situazione si riscontra altrove, e sta iniziando a toccare direttamente anche i papà: l’aumento del coinvolgimento degli uomini nella vita famigliare e nell’accudimento dei figli, nonché della diversità nella tipologia dei nuclei famigliari, sta portando sempre più lavoratori/padri a sentire che, “se il problema potrà mai essere risolto, gli uomini dovranno attivamente essere parte della soluzione” (6).
Quello della cura (dei figli, dei genitori…) è un tema che nasconde una minaccia enorme per la produttività dei lavoratori, la conquista e la capacità di trattenere i talenti e la competitività delle imprese.
Questi i risultati della ricerca dell’Università di Harvard che evidenzia i costi e l’inefficienza (economica e sociale) di un sistema che ignora la dimensione di vita dei lavoratori, dimostrando che un’alternativa non solo è possibile, ma addirittura vantaggiosa (7).
LAVORO A MISURA DI VITA
Le imprese che si ostinano a non valorizzare la dimensione umana continueranno a gestire con difficoltà la genitorialità e a fingere che la sfera relazionale di ognuno di noi non vada oltre le mura dell’azienda, che non ci siano partner, figli, genitori, amici, animali che richiedono il nostro impegno e il nostro tempo. Un sistema che s’illude che tutto ciò non esista, o che non sia importante, ignora semplicemente la realtà.
Un’organizzazione del lavoro che non tiene conto della dimensione della vita ha le stesse caratteristiche del cattivo design: funziona male, urla la sua inadeguatezza rendendoci la vita difficile e continua a porre il problema della conciliazione tra vita privata e professionale.
Dal design impariamo che se il problema persiste, forse significa che lo stiamo affrontando nel modo sbagliato e che vale la pena considerare una strada alternativa, più a misura di vita: una modalità in cui la persona assume il ruolo centrale, che presuppone l’analisi e l’ascolto dei reali bisogni e interessi dei lavoratori, la comprensione di esigenze e limiti, una progettazione del ritmo e dell’evoluzione del percorso lavorativo in grado di supportare la quotidianità, gli eventi e i cambiamenti che fanno parte della vita di tutti noi.
La sfida, in questo senso, si gioca sullo sforzo di cambiare mentalità: riuscire ad affrancarsi da modalità e strumenti tipici della gestione tradizionale, come la valutazione della produttività in funzione del tempo passato alla scrivania, la (presunta) flessibilità come eccezionale e bonaria concessione, la gestione di eventi ordinari e prevedibili (come la maternità e la paternità) come situazioni di crisi.
Intuire il potenziale (dirompente) di accettare l’impegno - culturale più che economico - si traduce in un clima aziendale più positivo, un miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e un maggior coinvolgimento, ma non solo: l’imperativo etico è in realtà un imperativo strategico. Iniziare adesso a lavorare con in mente le persone farà del capitale umano il vero perno centrale dello sviluppo sostenibile dell’impresa, un fattore determinante per costruire valore nel tempo e godere di un vantaggio competitivo fondamentale per molti anni a venire.
(1) Triple bottom line, accounting framework with three parts: social, environmental (or ecological) and financial (people, planet profits)
(2) Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development, Goal 12. Ensure sustainable consumption and production patterns, United Nations 2015
(3) Schede Indicatori BES, Ambiente - www.istat.it
(4) Donald A. Norman, The Design of Everyday Things
(5) Avere figli in Italia negli anni 2000, Indagine Istat 2014
(6) Young People Are Going to Save Us All From Office Life, Claire Cain Miller & Sanam Yar, The New York Times 17 Settembre 2019
(7) The Caring Company, Joseph B. Fuller e Manjari Raman, Managing the future of work, Harvard University
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